Intervista a Daniele Lugli del Movimento Nonviolento
Come riuscire a dare attuazione a quattro articoli della Costituzione in un colpo solo? Con la campagna Un’altra difesa è possibile per la raccolta di 50.000 firme che permettano di presentare in Parlamento la legge di iniziativa popolare “Istituzione e finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Prima di tutto l’articolo 1, “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, e l’articolo 71, secondo il quale “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. La svolta però è la conciliazione del dovere della difesa della patria sancito nell’art. 52 con il ripudio della guerra proclamato all’art. 11.
Il merito di questa – è proprio il caso di scriverlo – rivoluzione pacificava alle sei reti promotrici, che raggruppano al proprio interno la gran parte del mondo associativo: Rete italiana disarmo, Rete della pace, Tavolo interventi civili di pace, Sbilanciamoci!, Conferenza nazionale enti di servizio civile e Forum servizio civile. La loro riflessione parte da due considerazioni molto semplici: la prima è che nella nostra Costituzione non si parla di difesa armata, anche se fino a oggi è sempre stata finanziata solo questa, senza mai dare una possibilità alla difesa nonviolenta; la seconda è che le minacce per l’Italia oggi sono la povertà, la disoccupazione, l’emarginazione, la mancanza dei servizi sociali, il rischio idrogeologico, la cementificazione, la corruzione e la criminalità organizzata.
Dunque la proposta di legge, comporta di quattro articoli, prevede l’istituzione e il finanziamento del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo. Fra i loro compiti la predisposizione, sperimentazione e attuazione di piani per la difesa civile, lo svolgimento di attività di ricerca e formazione per la pace e il disarmo. La domanda sorge spontanea: con quali fondi? Anche qui la scelta dei promotori è molto concreta: la crisi economica non ha sostanzialmente sfiorato la spesa militare, non si tratta quindi di spendere di più, ma di spendere meglio spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della Difesa. A questi si aggiungeranno le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile.
Ne abbiamo parlato con Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento – in cui milita fin dalla sua fondazione – ed ex Difensore Civico della Regione Emilia Romagna.
Cosa si intende per “difesa civile non armata e nonviolenta” e “istituzionalizzazione degli interventi civili di pace”?
È un concetto che deriva da riflessioni compiute già durante l’ultimo conflitto mondiale, quando per esempio, secondo la stessa Wermacht, le azioni di sabotaggio della Resistenza sulle vie di comunicazione sono state di gran lunga più pesanti per l’occupante rispetto alle azioni di aggressione vera e propria. In altre parole significa competenza delle persone per potersi difendere sul proprio territorio anche in caso di invasione, ma non c’è solo questo: nella nostra Costituzione si afferma il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, mentre è sancito il dovere della difesa della patria, c’è quindi un accento sull’aspetto difensivo. Nonostante ciò abbiamo partecipato a diversi interventi travestiti da operazioni di polizia internazionale, raccontando che questo fa parte del concetto di difesa con una forzatura infondata su un piano giuridico. Si finisce perciò con l’essere implicati nei teatri di guerra e sembra che l’unica modalità sia l’intervento armato, mentre noi vogliamo che si rifletta sull’importanza e sull’efficacia del cosiddetto ‘interventismo umanitario’, da civile a civile: la presenza cioè di persone formate appositamente che da civili difendono i civili. Abbiamo già avuto operazioni di questo tipo sebbene limitate, per esempio in Kosovo, che hanno mostrato di essere efficaci e di poter fare ciò che un intervento armato non può fare: perché dopo aver bombardato e sparato è difficile avere la legittimità per mediare. Infine, c’è il collegamento con le originali finalità del servizio civile nazionale volontario, alternativo al servizio militare obbligatorio. Non c’è solo l’obiezione di coscienza invocata da Pinna nel 1948, quando si è offerto di essere impiegato nei servizi di sminamento piuttosto che imparare come si uccide qualcuno, ma anche il tema di un esercito del lavoro, proposto da Ernesto Rossi durante l’esilio di Ventotene insieme a Spinelli: della durata di due anni, obbligatorio per ragazze e ragazzi, sostitutivo della leva, il cui compito doveva essere produrre beni e servizi di base.
Perché è necessario uno specifico Dipartimento e un Istituto di Ricerca sulla Pace e sul Disarmo? E perché collocare il Dipartimento alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri?
Trattandosi di vino nuovo, servono botti nuove. Si è ragionato sulla necessità di forme di intervento che mettano a valore le esperienze disseminate che esistono già in Italia e in Europa e sul tema della preparazione professionale perché nel momento in cui si fanno interventi in situazioni molto difficili servono professionisti qualificati in materia di diplomazia dal basso, analisi dei conflitti, mediazione. Da qui l’esigenza di istituire un dipartimento apposito, dal quale dipenderebbero i corpi civili di pace, e un istituto di ricerca perché si ritiene che la formazione sia così importante che le esperienze già esistenti anche a questo riguardo debbano essere coordinate e valorizzate. In una prospettiva complessiva di difesa fondamentale sarebbe poi il collegamento con i dipartimenti della Protezione civile, del Servizio civile e dei Vigili del fuoco. La diretta dipendenza dalla presidenza del consiglio vuole invece sottolineare l’alterità di questa forma di difesa e la sua non subordinazione alla forma tradizionale del Ministero della difesa, si vuole cioè evidenziare che il dipartimento non deve essere un articolazione del dicastero, almeno per questo momento.
Perché avete scelto una legge di iniziativa popolare?
Pur essendoci già un gruppo di deputati che ha dimostrato attenzione per il progetto, ci è sembrato che fosse un’occasione perché queste tematiche cominciassero a essere discusse non solo dagli addetti ai lavori, pacifisti o militari pronti a esplorare vie alternative. Se, come ha affermato Clemenceau, «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari» a maggior ragione la pace e la difesa non possono essere affidate unicamente ai militari. Attraverso il dibattito su questa proposta di legge di iniziativa popolare i cittadini possono cominciare a ragionare su cosa significa difesa e da cosa ci si debba difendere, oppure quali valori si debbano difendere, e con quali strumenti questa difesa debba essere attuata. Insomma non si tratta solo di una raccolta di firme, ma di una riflessione culturale con la volontà di un coinvolgimento il più ampio possibile. Soprattutto in momenti come questo è importante cominciare a parlare in maniera concreta di questi temi, in modo che non ci si possa più nascondere dietro la scusa dell’emergenza, che impedisce di discutere in maniera approfondita e ponderata, considerando anche le basi di una violenza che è strutturale e culturale.
C’è già un paese dove la difesa civile viene messa in pratica che potrebbe fare da modello e paragone?
No, però una situazione molto simile è quella della Svizzera, che ha una lunga tradizione di neutralità e dove c’è un’attenzione molto forte alla difesa ‘difensiva’: anche se nemmeno Hitler l’ha invasa perché è da sempre considerata il ‘forziere d’Europa’, gli svizzeri avevano dei piani molto precisi nel caso ciò fosse avvenuto. E non è un caso che il fondatore del servizio civile internazionale fosse uno svizzero, Pierre Ceresole, figlio di un alto ufficiale dell’esercito ma obiettore di coscienza, fermato nel 1942 e nel 1944 mentre tentava di recarsi in Germania per cercare di convincere i tedeschi a cessare il conflitto.
Avete scelto il 10 dicembre, la giornata internazionale dei diritti umani, come giornata nazionale della raccolta firme, quali altre tappe avete davanti a voi fino al 2 giugno quando la campagna finirà nel giorno della festa della Repubblica disarmata?
A febbraio ci sarà la presentazione ufficiale della campagna anche a Ferrara e poi ci saranno momenti pubblici di incontro e discussione perché, come dicevo prima, questa campagna vuole essere provocare anche un cambiamento di prospettiva dal punto di vista culturale sul concetto di difesa. Nel frattempo si sta costituendo il comitato territoriale provinciale, che ha già la sua sede presso la Cgil di Ferrara.
Chi volesse firmare dove può farlo?
In tutte le segreterie dei comuni della provincia dovrebbero essere già stati distribuiti ed essere a disposizione i moduli per la firma. Inoltre, da qui a maggio organizzeremo banchetti appositamente per raccogliere le adesioni.
“A 100 anni dalla “grande guerra”, che ha segnato il passaggio moderno e definitivo alla guerra tecnologica, è giunto ormai il tempo di passare dalla retorica della pace, che prepara sempre nuove guerre, alla politica per la pace che ne prepara e costruisce la difesa. Che essendo “civile, non armata e nonviolenta” ha bisogno della partecipazione di tutti” (Pasquale Pugliese, Segretario del Movimento Nonviolento)